Le controversie dei consumatori
SERGIO CHIARLONI.
1.-Premessa. 2.-Le controversie collettive. 3.-Il caso delle clausole vessatorie in materia di competenza territoriale. 4. Le controversie individuali, con particolare riguardo ai modi stragiudiziali di soluzione. 4.1 La conciliazione davanti al giudice di pace. 4.2. La conciliazione davanti agli sportelli di conciliazione della Camera di commercio. 4.3 Conciliazione obbligatoria o conciliazione facoltativa?
1.-Un discorso sulle controversie dei consumatori deve muovere da una distinzione fondamentale.
Da un lato abbiamo le controversie, che si potrebbero chiamare collettive se non fosse per il richiamo fonte di fraintendimenti ad una categoria di controversie del lavoro tipiche dell’epoca corporativa e si potrebbero chiamare "di classe", se non fosse che nel nostro Paese siamo ben lontani dall'esperienza nordamericana che quel nome connota. Alludo qui alle controversie che possono venir instaurate da alcuni c.d. enti esponenziali, nell'interesse dell'universo dei consumatori, quando vengano violati loro interessi c.d. collettivi o diffusi a norma dell’art. 3 della legge n.281 del 1998, o, più specificamente, ai sensi del nuovo art. 1469 sexies c.c. allo scopo di ottenere un’inibitoria all’utilizzo delle clausole abusive contenute nelle condizioni generali di contratto predisposte dal professionista.
Dall’altro lato abbiamo le controversie individuali del singolo consumatore, che come “soggetto debole” del rapporto reclama anche in questo contesto una tutela particolare, che si sostanzia nell’accesso ad un sistema di soluzione che si connoti per la semplicità, la rapidità e l’economia delle relative procedure, anche in considerazione della circostanza che sovente siamo qui in presenza di una tipologia di controversie di valore economico così scarso da meritare l’attributo di “bagatellari”.
2.-Cominciamo dalle controversie c.d. collettive. Un rilievo preliminare s’impone. Nel nostro
Paese stenta ad espandersi, nelle prassi giuridiche quotidiane, una cultura che abbia al suo centro gli interessi dei consumatori e li sappia veramente far valere, di fronte ai contrapposti interessi del profitto a tutti i costi propri del mondo delle imprese. Questa situazione dipende da molti fattori. Basti pensare all’imperfezione del mercato, spesso dominato da monopoli, oligopoli ed intese monopolistiche sotto banco; alla diffusione ancora scarsa nel pubblico delle pur numerose associazioni, in qualche caso appesantite da eccessivo burocratismo; all’insufficienza o quanto meno alla timidezza degli strumenti giuridici apprestati dal legislatore; alle tendenze a volte restrittive delle interpretazioni giurisprudenziali; alla mancanza di un Nader italiano che sappia mobilitare un consenso di massa in favore dei cittadini in quanto consumatori. Pur dovendosi riconoscere i progressi recentemente compiuti, siamo insomma ben lontani dalla situazione degli Stati Uniti, dove una struttura dell’ordinamento tradizionalmente basata su pesi e contrappesi e una serie d’istituti sinergicamente connessi, come il patto di quota lite, i danni punitivi e la giuria popolare per le cause civili nate da azioni di classe consentono di tenere a freno gli istinti animali del capitalismo di rapina almeno nei suoi rapporti con l’universo dei consumatori, le cui attività di controllo e di contrasto a livello giurisdizionale costituiscono in quel Paese manifestazioni importanti di democrazia economica.
I primi passi sono stati percorsi più su impulso dell’Unione europea (l’art. 3 lettera T del trattato di Maastricht e l’art. 3 lettera I del trattato di Amsterdam pongono tra gli obbiettivi principali dell’Unione la tutela dei diritti dei consumatori) che grazie ad iniziative per così dire autoctone. Questo stato di cose probabilmente spiega una certa resistenza nel diritto vivente e in parte della cultura giuridica ad accogliere, in tutte le loro potenzialità, gli atti legislativi di diritto interno per il recepimento delle direttive comunitarie nella materia. Senza contare che spesso gli atti in discorso sono, come vedremo, assai mal confezionati e pertanto fonte d’innumerevoli dispute interpretative e qualche volta hanno accolto in maniera incompleta e inesatta la direttiva, comportando l’attivazione della procedura d’infrazione da parte della Commissione europea e la conseguente recente condanna ad opera della Corte di giustizia del Lussemburgo .
Il primo intervento di rilievo, in attuazione della direttiva comunitaria n. 13 del 1993, è consistito nell’art 25 della legge 6 febbraio 1996, n.52 che ha introdotto nel codice civile una serie di articoli, dal 1469 bis al sexies indirizzati a tutelare il consumatore contro i tradizionali abusi perpetrati nei loro confronti dalle imprese, disseminando di clausole vessatorie i contratti per adesione.
E’ in questo complesso e anche assai farraginoso articolato che si trova una prima disciplina dell’azione collettiva, con attribuzione da parte dell’art. 1469 sexies c.c. della legittimazione ad agire alle camere di commercio e alle associazioni rappresentative dei consumatori, che possono convenire il professionista o l’associazione di professionisti che utilizzano condizioni generali di contratto per richiedere l’inibitoria nei confronti di quelle di cui sia accertata la vessatorietà.
La relativa azione può venir proposta sia in via ordinaria sia in via d’urgenza, applicandosi nell’ultimo caso la normativa del procedimento cautelare uniforme.
La successiva legge 14 agosto 1998 n. 281 generalizzava poi l’azione inibitoria, stabilendo al suo art. 3 che le associazioni rappresentative a livello nazionale sono legittimate ad agire a tutela degli interessi collettivi, anche qui tanto in via ordinaria che d’urgenza, richiedendo al giudice competente di inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti, nonché di adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate .
Purtroppo, i problemi interpretativi cui dà luogo l’istituto sono numerosi e di difficile soluzione.
Per quanto riguarda l’inibitoria ordinaria si discute soprattutto sulla qualificazione giuridica e la conseguente efficacia della relativa sentenza e sull’estensione soggettiva da attribuire al giudicato su di essa formatosi.
Con riferimento alla natura giuridica, se consideriamo l’inibitoria in sé e per sé, senza tener conto di una recentissima innovazione legislativa di cui tratterò più avanti, il mio punto di vista è che si tratti di una sentenza d’accertamento, ma con una connotazione particolare che consente di ulteriormente definirla come una sentenza d’accertamento in futuro. Il giudice accerta che un determinato comportamento è illegittimo e ne inibisce la reiterazione. Ciò significa che se il medesimo comportamento viene ripetuto dal soggetto che se lo è visto inibire, il giudice che sia investito per la “violazione” dell’inibitoria dovrà limitarsi ad accertare l’identità del nuovo comportamento con la trasgressione già accertata e una volta compiuta quest’operazione sarà vincolato a dichiarare il comportamento illegittimo.
Con riferimento all’estensione soggettiva del giudicato, tenendo conto che siamo in presenza di un’ipotesi di tutela di interesse c.d. collettivi o diffusi, possiamo dire che tutte le possibili tesi vengono avanzate in dottrina. Alcuni ritengono che la sentenza faccia stato solo nei rapporti tra le parti, dovendosi applicare l’art. 2909 c.c., anche se qui ci si trova alla presenza d’interessi non semplicemente individuali . Il che significherebbe evidentemente rendere l’inibitoria un’arma spuntata dal punto di vista degli altri soggetti legittimati all’inibitoria, anche quando la relativa sentenza fosse resa dalla corte di cassazione, vista la non vincolatività del precedente nel nostro ordinamento. Altri ritengono invece che il giudicato, in virtù della peculiarità del suo oggetto si estende a favore o contro tutti i titolari degli interessi coinvolti, vale a dire i colegittimati all'esercizio dell'azione . La tesi preoccupa per la violazione del diritto di difesa cui andrebbe incontro il singolo consumatore o l’associazione estranei al giudizio, che si sia concluso con il rigetto della domanda e l’accertamento della legittimità, ad esempio, di una certa clausola contenuta nelle condizioni generali di contratto del professionista convenuto. Altri infine, a mio giudizio assai più opportunamente, hanno da tempo preferito pensare, con riferimento ad altre ipotesi di azioni a tutela di interessi collettivi, sulla linea della classica elaborazione di Liebman per il concorso soggettivo di azioni, ad un’efficacia secundum eventum litis, (analoga a quella legislativamente prevista in materia d’obbligazioni solidali) nel senso che essa si estenderebbe all’universo delle altre associazioni e in via riflessa ai singoli consumatori anche non iscritti nel caso d’esito favorevole e restringerebbe alle parti del giudizio la sua efficacia in caso contrario .
Per quanto riguarda l’inibitoria c.d. cautelare un primo problema, affrontato in giurisprudenza sin dall’approvazione della legge che ha introdotto nel codice civile la nuova disciplina delle clausole vessatorie seguendo le indicazioni della direttiva comunitaria, ha riguardato l’individuazione dei presupposti. Si trattava di determinare in cosa esattamente dovessero consistere i “giusti motivi d’urgenza” richiesti dal secondo comma dell’art. 1469 sexies c.c. A me, giurista ingenuo, par ovvio che tali motivi si possono già ravvisare quando si tratti di clausole abusive riguardanti i c.d. contratti di massa che interessano una grande quantità di consumatori , essendo evidente in questi casi l’urgenza di riparare agli effetti distorsivi sulla parità dei soggetti che agiscono sul mercato che la tutela dei consumatori intende perseguire.
Ma le applicazioni giurisprudenziali sono andate in altro senso. Per alcuni giudici di merito i presupposti per l’emanazione dell’inibitoria cautelare sono identici a quelli per l’emanazione dei provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c. In alcuni dei primi provvedimenti si è addirittura richiesto un pregiudizio concreto e irreparabile subito da singoli consumatori , confondendosi così tra presupposti per la causa collettiva instaurata dalle associazioni legittimate e presupposti per la causa individuale instaurata dal singolo consumatore e arrivandosi così a rendere pressoché inutilizzabile l’inibitoria cautelare, dato che i danni derivanti dalla contrattazione abusiva in materia di diritti disponibili sono in linea di principio risarcibili per equivalente. In seguito, riparato l’errore, la giurisprudenza maggioritaria, nel timore dichiarato che l’inibitoria cautelare diventasse indistinguibile nei suoi presupposti dall’inibitoria ordinaria, si è orientata a ritenere che i “giusti motivi d’urgenza” richiesti per la prima esigano che il contratto cui accede la clausola abusiva debba riferirsi a beni primari costituzionalmente protetti . Anche qui siamo in presenza di un’interpretazione oltremodo restrittiva e discutibile, credo, perché conduce a respingere la domanda di inibitoria cautelare nella maggioranza dei casi in cui viene lamentata la vessatorietà di una clausola contrattuale , a meno di non aggirare alquanto ipocritamente l’ostacolo cercando di ampliare il concetto piuttosto evanescente di bene primario.
Al riguardo vale peraltro la pena di osservare che la questione si pone in modo diverso con riferimento all’inibitoria cautelare prevista dalla legge 281 del 1998, che disciplina in generale i diritti fondamentali dei consumatori. Tra questi diritti ne troviamo elencati alcuni che si prestano alla tutela cautelare, anche se intesa nel senso che essa esige che sia orientata a proteggere beni costituzionalmente protetti dei consumatori. Basti pensare alla tutela della salute e, per alcune fattispecie, all’erogazione dei servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza (con riguardo ai quali ultimi si presenta peraltro un problema di riparto di giurisdizione con il giudice amministrativo).
Un secondo problema riguarda la qualificazione giuridica dell’inibitoria c.d. cautelare. Si tratta di sapere se il provvedimento sia definibile come un provvedimento semplificato esecutivo a cognizione sommaria o debba venir inquadrato tra i provvedimenti cautelari veri e propri. Nel primo caso il rinvio agli artt. 669 bis e seguenti del c.p.c. va sottoposto alla clausola di compatibilità e in particolare non saranno applicabili gli artt. 668 octies e 669 novies c.p.c. che prevedono la declaratoria di inefficacia del provvedimento cautelare se il giudizio di merito non è iniziato entro il termine perentorio fissato dal giudice o, in mancanza, dal secondo comma dell’art. 669 octies. Norme che, invece, dovrebbero essere considerate applicabili nel secondo caso. Preferirei la prima interpretazione, che conferisce autonomia alla c.d. inibitoria cautelare.
Tuttavia, essa non mi sembra accoglibile, perché in netto contrasto con la lettera dell’art. 1469 sexies comma 2° c.p.c. e dell’art. 3 comma 6° della legge 281/1998. La verità è che tesi del genere mirano a forzare l’intenzione del legislatore, per aver scelto un meccanismo processuale non perfettamente adeguato per un’efficiente protezione degli interessi in gioco. Sarebbe stato senz’altro più opportuno scegliere un meccanismo analogo ai procedimenti possessori, con una fase sommaria per una tutela veloce e provvisoria degli interessi collettivi, seguita da una (eventuale) fase a cognizione piena indirizzata al giudicato.
Si tratta comunque di un problema che dovrebbe venir superato dalla riforma dei procedimenti cautelari anticipatori in corso di discussione al Parlamento, che conferisce loro autonomia, sul modello francese del référé, rispetto al giudizio ordinario a cognizione piena, prevedendo che essi conservino la loro efficacia fino a che essa non sia messa in discussione con l’esercizio dell’azione ordinaria (presumibilmente ad opera del soggetto inciso dal provvedimento anticipatorio per essere stato soccombente nella fase sommaria).
E si tratta per di più di un problema forse già superato nella prassi. Almeno a giudicare dai provvedimenti più recentemente pubblicati, essa sembra adeguarsi all’atteggiamento restrittivo della giurisprudenza in tema d’inibitoria cautelare e passa ora direttamente all’inibitoria ordinaria , per non correre il rischio di vedersi respinta la prima per mancanza di presupposti.
Si tratta di una tendenza che probabilmente si rafforzerà grazie ad un recente provvedimento legislativo.
La legge 39 del 2002 (la c.d. legge comunitaria 2001) ha introdotto un'importante novità, che indirizza a ritenere possibile ora ciò che malgrado autorevoli opinioni in contrario non si poteva far prima, vale a dire ascrivere all'inibitoria la natura di sentenza di condanna. Difatti l'art. 11 della legge "al fine di completare l'attuazione della direttiva 98/27CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 maggio 1998, relativa a provvedimenti inibitori a tutela degli interessi dei consumatori" stabilisce, introducendo un nuovo art. 5 bis, che in caso di inadempimento degli obblighi stabiliti dall'inibitoria (ordinaria e non cautelare) ovvero previsti dal verbale di conciliazione promosso dalla Camera di commercio il giudice, anche su domanda dell'associazione che ha agito in giudizio (ma non lo potrà certo fare d'ufficio nel secondo caso), dispone il pagamento di una somma di denaro da 516 a 1032 euro per ogni giorno di ritardo rapportato alla gravità del fatto. Somma da versare allo Stato, che la utilizzerà per finanziare iniziative a vantaggio dei consumatori. Vediamo qui attuato per la prima volta un vero e proprio sistema di esecuzione indiretta attraverso l'imposizione di una rilevante misura coercitiva pecuniaria in un intero e importante settore di controversie. C'è da augurarsi che sia questo un primo passo verso la generalizzazione di un meccanismo da parecchi lustri e ancora recentissimamente richiesto dalla dottrina, preoccupata di assicurare l'effettività dei provvedimenti giurisdizionali non suscettibili di esecuzione per surrogazione
3.-Un buon ponte di passaggio dalla tutela collettiva all’esame dei problemi posti dalle controversie individuali dei consumatori è costituito dall’esame di un caso particolare di clausola vessatoria, che ha dato luogo a notevoli contrasti nella giurisprudenza, a causa della cattiva, o meglio pessima fattura della relativa disciplina. Contrasti per lo più nati in sede di numerose controversie individuali, mentre una controversia collettiva, è stata azionata per ora con successo fin davanti alla Corte d’Appello di Roma da “Cittadinanzattiva” contro Nuova Tirrena e l’Associazione nazionale delle imprese assicuratrici.
Alludo alla clausola relativa alla competenza territoriale per le controversie dei consumatori. Il numero 19 dell’art. 1469 bis stabilisce la vessatorietà della clausola, che preveda “come sede competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore”. La portata dell’innovazione sarebbe rivoluzionaria. Fino all’entrata in vigore della norma era prassi indiscussa e indiscutibile che le cause c.d. di recupero crediti dei professionisti nei confronti dei consumatori venissero radicate nel luogo del domicilio del professionista grazie al combinato disposto dell’art. 20 c.p.c. che individua come foro facoltativo nelle cause aventi ad oggetto obbligazioni il luogo in cui esse devono venir eseguite e 1133 c.c. che individua il domicilio del creditore come luogo di esecuzione delle obbligazioni pecuniarie liquide ed esigibili. Così, i decreti ingiuntivi per l’inadempimento di somme dovute per piccole forniture di beni nell’intero territorio nazionale (ad esempio, acquisti rateali di libri) si concentravano presso il giudice nella cui circoscrizione aveva la sede la società creditrice. Il recupero era così razionalizzato e reso più economico dal punto di vista dell’impresa. Sennonché l’esercizio del diritto di difesa del consumatore che intendesse opporsi alla domanda era reso difficile dall’eventuale lontananza del suo luogo di residenza rispetto a quello in cui andava proposta l’opposizione al decreto. L’art. 1469 bis, n. 19, letto da solo, rende doverosa la conclusione che nel conflitto tra gli opposti interessi del professionista e del consumatore in ordine al giudice competente per territorio a conoscere le relative controversie il legislatore abbia privilegiato il secondo. Ma la faccenda non è così semplice per il caso segnalato. Si complica alla luce dell’art. 1469 ter comma 3° c.c., ai cui sensi “non sono vessatorie le clausole che riproducono disposizioni di legge”. Questo perché una clausola generale di contratto che indichi come foro competente quello del professionista non fa altro che riprodurre, per le cause relativa a crediti del professionista, la disposizione dell’art. 20 c.p.c. appena ricordata.
L’antinomia tra le due norme ha originato un contrasto giurisprudenziale sincronico in cassazione.
Premetto che le controversie tra consumatore e professionista nascono quasi sempre in casi nei quali la clausola vessatoria, prevedendo la competenza territoriale del giudice della sede dell’impresa, concretizza la disposizione dell’art. 20 c.p.c. vuoi perché questo è il luogo d’esecuzione dell’obbligazione se il consumatore è convenuto ovvero della sua nascita attraverso la stipulazione del contratto, se il consumatore è attore. Ovviamente è solo questo il caso che interessa la prassi. La scelta da parte del professionista di un foro diverso dal luogo di residenza del consumatore e dal luogo della propria sede o domicilio concreta certamente una clausola vessatoria che sfuggirebbe alla morsa tra numero 19 dell’art. 1469 bis, e art. 1469 ter, comma 3°. Ma si tratta di un caso di scuola che non sarà mai dato di costatare nella vita.
Ebbene, secondo un primo provvedimento che ha accolto un regolamento contro una sentenza del tribunale di Bologna , occorrerebbe dare una lettura sostanzialmente abrogante del suddetto numero 19: la clausola generale che riservi la competenza al domicilio o alla sede del professionista non sarebbe vessatoria, perché riproduttiva di una disposizione di legge, appunto l’art. 20 c.p.c. quando (come di solito accade) se ne verifichino i presupposti.
Ma una sentenza immediatamente successiva , accogliendo un orientamento già emerso in dottrina , ritiene che, dovendosi evitare un risultato ermeneutico che renda inutile la disposizione di tutela del consumatore, anche in aderenza all’art. 1469 quater c.c. ai cui sensi in caso di dubbio deve prevalere l’interpretazione a lui favorevole, il n. 19 vada ricostruito come una disposizione di carattere processuale che ha innovato la disciplina della competenza introducendo un nuovo foro esclusivo (ma derogabile), che rende inapplicabile l’art. 20 c.p.c. alle cause dei consumatori. Conclusione da condividere e condivisa da una miriade ormai di giudici di merito, tra i quali accanto ai molti di primo grado, specie di pace si colloca la recentissima sentenza della Corte d’appello di Roma sopra ricordata. Certo, si tratta di una conclusione che può venir basata su un’interpretazione molto restrittiva, per non dire abrogante, dell’art. 1469 ter terzo comma c.c.: le clausole riproduttive di norme di legge non possono considerarsi vessatorie solo se riguardano previsioni di carattere generale che incidano sull’equilibrio delle parti e non già se si pongano in contrasto con le specifiche disposizioni previste nei numeri da uno a venti dell’art. 1469 bis c.c. . Non si tratta tuttavia di una conclusione obbligata, in quanto l’inapplicabilità del foro alternativo preveduto dall’art. 20 c.p.c. al caso indicato dal n. 19 dell’art. 1469 c.c. può venir agevolmente spiegata con la specialità dell’ultima disposizione rispetto alla prima, consentendo così libero campo all’applicazione dell’art. 1469 ter in presenza di disposizioni di legge (anteriori o successivei) che siano invece speciali rispetto all’art. 1469 bis.
4.-Con riguardo alle controversie individuali dei consumatori il panorama europeo ci offre tre diversi moduli di soluzione, che a volte si incrociano cumulandosi, di un contenzioso che, come ho già accennato, è per lo più di scarso valore economico, cosicché per esso non è possibile continuare ad accontentarsi delle procedure tradizionali, con i suoi formalismi, le sue durate, la necessità di avvalersi per la difesa di specialisti costosi.
Un primo modello, affermatosi in Inghilterra e in Irlanda tende essenzialmente ad una fortissima semplificazione della procedura (introduzione di moduli per gli atti introduttivi, difesa personale incentivata con l’esclusione del principio della soccombenza –se vuoi l’avvocato te lo devi pagare anche se vinci la causa- costi irrisori), mantenendo peraltro la figura tradizionale di giudice.
Un secondo modello, affermatosi in Italia, ricorre a nuove figure di giudici onorari cui affidare il contenzioso bagatellare, mantenendo peraltro una procedura piuttosto complicata sul modello del processo ordinario di cognizione, con qualche leggera semplificazione, con la conseguente necessità di fatto se non di diritto della rappresentanza tecnica, cui si continua a ricorrere anche se per le cause sotto il milione la difesa personale è sempre consentita e per quelle di valore superiore può essere autorizzata dal giudice.
Un terzo modello, che si va lentamente affermando ovunque, consiste nell’attivazione di sistemi alternativi di risoluzione di queste controversie, in modo particolare attraverso procedure conciliative variamente organizzate, dove un’importanza via via maggiore va assumendo Internet, attraverso l’organizzazione di siti allo scopo dedicati.. Anche in questo contesto è molto presente la Comunità Europea con progetti che riguardano soprattutto le controversie transfrontaliere, indirizzati a semplificare la difesa del consumatore.
4.1.-Qualche riflessione sull’attività conciliativa del giudice di pace. Un giudice onorario cui sono affidate le cause bagatellari (se pur non soltanto) per amministrare una justice de proximité come direbbero i francesi o la giustizia del quotidiano come possiamo dire noi. Soffermiamoci per un momento sul nome.
Viene subito spontaneo il rilievo che, nell’attività di un giudice siffatto, quella conciliativa dovrebbe assumere un rilievo preminente. Per molte ragioni, dove la principale, a mio giudizio, risiede nei costi processuali. La mediazione di specialisti costosi, anche se essa può in teoria venir evitata, sia pure nella maggior parte dei casi con l’autorizzazione del giudice, conduce nei fatti ad un costo complessivo della difesa tecnica che molto spesso rappresenta un multiplo del valore della causa. Quando questo accade siamo di fronte ad un’inaccettabile irrazionalità complessiva del sistema anche se il costo viene sopportato dal soccombente. Senza contare la palese ingiustizia che si viene a determinare nei confronti di quest’ultimo, specialmente quando il mancato pagamento deriva da un’impossibilità di fatto. Dispiace in proposito che nella cultura del processo civile manchi in genere la consapevolezza che sui debitori morosi che non soddisfano i loro debiti perché non possono, la soccombenza nel processo bagatellare comporta l’aggravio di un vero e proprio carico usurario sul debito originario. Va anche aggiunto che molto spesso il vantaggio della vittoria per lo stesso attore sfuma a causa del pagamento da parte sua delle c.d. spese irripetibili.
Quando si parla di conciliazione è peraltro opportuno distinguere. Non tutte le conciliazioni sono uguali. Dobbiamo separare le conciliazioni buone da quelle cattive.
Sono cattive le conciliazioni che hanno un contenuto iniquo in quanto non rispecchiano la realtà dei rapporti tra le parti, ma favoriscono ingiustamente una di esse, che ha in mano una qualche arma sotto la cui minaccia l’altra si convince a conciliare. Sono buone le conciliazioni che fanno ottenere alla parte “quello proprio quello tutto quello cui ha diritto”, se ci trova di fronte ad una lite da pretesa insoddisfatta, ovvero le conciliazioni che riescono a trovare un soddisfacente punto di equilibrio tra le parti, se ci si trova di fronte ad una lite da pretesa contestata (i c.d. good faith disagreements della letteratura anglosassone) .
Riflettiamo sul significato che può assumere la diffusione delle conciliazioni in una situazione di dissesto processuale. Pare evidente il pericolo che molte, troppe, sarebbero le conciliazioni cattive. Conciliazioni dove il creditore, sotto la spada di Damocle delle siderali durate del processo, si sente costretto ad accettare che il suo credito venga enormemente decurtato.
Soccorre la saggezza popolare. Quando si tratta di soldi, (e le cause civili hanno per lo più soldi per oggetto) ovviamente il creditore preferisce ottenerne "pochi, maledetti e subito", piuttosto che tutti e benedetti dal giudice, ma chissà quando. Soccorre anche l’esperienza. Gli studi degli avvocati sono sovente un crogiolo di transazioni o di conciliazioni stragiudiziali e i discorsi che ivi si fanno sono sempre imperniati sulla convenienza economica di accettare una sistemazione al grande ribasso, piuttosto che attendere per anni l’integrale soddisfacimento. Il che spiega l’enorme percentuale di processi che si chiudono con una declaratoria di estinzione, la quale quasi sempre nasconde una transazione sottostante, al cui contenuto molto spesso non è estranea l’intenzione negoziale di evitare il danno da giustizia dilazionata.
Insomma, le conciliazioni, per essere buone, esigono un’amministrazione della giustizia efficiente, in modo che non vi sia una parte indotta a speculare sulle durate processuali per fare accettare al suo avversario una conciliazione cattiva.
Sotto il profilo messo in rilievo, i nostri giudici onorari si trovano per ora in una situazione molto migliore rispetto ai colleghi togati. Supponendo ben fondata la dicotomia che abbiamo appena messo in luce, possiamo tranquillamente pensare che le conciliazioni che vengono concluse davanti al giudice di pace sono oggi, in linea di principio, conciliazioni buone. Prendiamo l’unico indicatore disponibile, la durata media dei processi: l’attuale stato dell’amministrazione della giustizia davanti a lui appare soddisfacente. Vediamo infatti che i tempi di definizione dei processi davanti ai giudici di pace sono tuttora largamente inferiori all’anno (254 giorni nel 1998) in confronto ai quasi quattro necessari davanti al giudice unico di primo grado. Ma il discorso cambia se dalla diagnosi dell’esistente passiamo alla prognosi per il futuro. Le durate medie dei processi davanti al giudice di pace stanno aumentando in rapida progressione (sono passate da 165 giorni nel 1996 ai 254 appena riferiti) . Ricordiamo che il giudice di pace ha iniziato la sua attività a ruoli vergini: non si può fare a meno di temere che stiamo assistendo ad un fenomeno analogo a quello riscontrato per i giudici del lavoro a partire dal 1973. Anche qui le durate iniziali erano molto contenute in virtù della costituzione di sezioni stralcio per lo smaltimento dell’arretrato. Sennonché nel corso degli anni queste durate sono progressivamente aumentate, man mano che sul ruolo dei giudici addetti alle cause nuove si veniva ricostituendo l’arretrato a causa dell’incapacità di mantenere il passo tra cause definite e cause sopravvenute. Con il risultato che sono bastati vent’anni perché nelle preture e soprattutto nei tribunali del lavoro le durate processuali siano venute ad eguagliare, e in molti casi a superare, le durate dei processi ordinari. Se il fenomeno, come tutto lascia prevedere, si ripeterà per i giudici di pace, ci troveremo simmetricamente di fronte al prevalere delle conciliazioni “cattive” rispetto alle conciliazioni “buone”.
Ammettiamo che le conciliazioni davanti al giudice di pace siano per ora conciliazioni buone. Stando alle osservazioni con cui siamo partiti dovremmo anche aspettarci che esse siano numerose.
I dati empirici sembrano peraltro contraddire l’assunzione teorica.
Cominciamo dalle conciliazioni giudiziali ex art. 185 c.p.c. I dati nazionali pubblicati denunciano un sensibile decremento sia in termini assoluti che in termini percentuali. Mentre i procedimenti sopravvenuti aumentano da 278183 a 380710, le conciliazioni diminuiscono da 13431 nel 1996 a 10737 nel 1998 (dal 13,7% delle definizioni al 6,2%). Sarebbe affrettato pensare, tuttavia, ad un venir meno della fiducia degli utenti circa la capacità del giudice di pace di adoperarsi per una soluzione conciliativa della lite. Contemporaneamente, sono quasi raddoppiate –da 68 mila a 122 mila circa- le cause cancellate. Nella stragrande maggioranza dei casi la cancellazione per inattività delle parti nasconde una conciliazione perfezionata al di fuori del processo. Ora è ragionevole ritenere che una quota rilevante di queste conciliazioni avvenga grazie all’intermediazione del giudice di pace, per poi perfezionarsi nella riservatezza dei rapporti tra le parti e i loro difensori. La ragione è semplice. Sulle conciliazioni “ufficializzate” davanti al giudice di pace bisognava pagare l’imposta di registro, che i privati preferiscono evitare, soprattutto nelle cause di minor valore. Ciò che comunque importa avere ben presente è che, quando si viene a trattare delle conciliazioni giudiziali, il dato di quelle “ufficiali” rilevate prima della recente modifica legislativa in materia di costi fiscali è sicuramente molto sottostimato.
4.2 Per finire, passiamo alle conciliazioni davanti alla Camere di Commercio. Muoverò da alcuni dati emergenti da una ricerca condotta dalla CDC di Milano, sotto la direzione scientifica di Michele Taruffo e mia. In proposito occorre mettere in chiaro che la realtà di Milano e con un distacco comunque notevole quella di Torino costituisce al momento un unicum in confronto alla realtà delle altre Camere di commercio. Basti pensare che nel 1998 anno per il quale possiedo i dati comparativi Milano ha trattato 143 domande di conciliazione, Torino 53, a Genova 4 e mancano i dati relativi a Roma, Napoli Palermo e Bologna, ritenuti non significativi. L’esperienza milanese è il frutto di una costellazione di circostanze, dove al primo posto si colloca il venire ad esistenza di un “circolo di qualità”, secondo la terminologia che ho a suo tempo adottata nel descrivere analoghe (e rare) esperienze nell’universo della giustizia togata. Questo significa che, per il momento, si tratta di un’esperienza difficilmente esportabile nelle altre Camere di commercio, dove il numero delle conciliazioni è, al confronto, assolutamente irrisorio, anche per la povertà e in qualche caso la sostanziale inesistenza delle relative strutture. Senza negare, come è ovvio, che quello milanese costituisca una sorta di esperimento pilota, suscettibile, con molto tempo e molta pazienza di venir imitato dalle altre strutture camerali.
L’anno scorso fu eseguito un sondaggio su un campione significativo d’imprese della provincia di Milano. I fatti più interessanti che emergono dal sondaggio sono i seguenti: a) che la conciliazione in generale non è molto nota (solo dal 46,6% degli intervistati); b) che gli istituti conciliativi più conosciuti sono la conciliazione davanti al giudice di pace e la conciliazione del lavoro prima del giudizio (rispettivamente 64,5% e 54,4%), mentre il grado di conoscenza della conciliazione camerale è notevolmente inferiore (37,6% degli intervistati che conoscono la conciliazione, che corrisponde ad appena il 17% del totale, con meno del 2% che l’abbia utilizzato almeno una volta); c) che l’atteggiamento degli intervistati che li conoscono nei confronti degli istituti conciliativi in generale è altamente positivo non solo per le ragioni che sono state dichiarate (rapidità, costi ridotti, riservatezza), ma probabilmente anche in funzione della tipologia delle controversie. Il loro basso valore medio dovrebbe spiegare in parte lo scarso interesse denunciato nei confronti dell’arbitrato e spiega invece la circostanza che la conciliazione sia considerata uno strumento di elezione.
Con riferimento alle strutture conciliative delle Camere di commercio una conclusione s’impone immediatamente, di fronte a questi dati. Emerge chiara la necessità di promuovere la conciliazione della camera arbitrale presso le imprese associate con adeguate forme di pubblicità, senza lesinare sui necessari investimenti.
5.-Come è noto, esiste un tentativo di conciliazione presso le Camere di Commercio che è connotato dall’obbligatorietà. Si tratta del tentativo che deve precedere l’instaurazione di una controversia in materia di subfornitura, ai sensi dell’art.10 della legge 18 giugno 1998, n. 192.
Vien da domandarsi se sia utile al fine di aumentare le conciliazioni, oltre a promuoverle con adeguate forme di sostegno “pubblicitario”, come appena visto, rendere obbligatorio il tentativo presso per una tipologia di controversie più vasta, che magari comprenda tutte le controversie tra imprese e tra imprese e consumatori.
Certo, sembra che il legislatore faccia molto affidamento sull’estensione delle ipotesi di obbligatorietà del tentativo di conciliazione. A parte le fattispecie già previste in una serie di leggi speciali, oltre a quella sopra rammentata (si tratta della legge 11 maggio 1990, n. 108, che prevede all’art. 5 un tentativo obbligatorio di conciliazione quando venga impugnato un licenziamento individuale in regime di stabilità obbligatoria e del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, che, riscrivendo l’art. 410 c.p.c., generalizza l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione presso le commissioni provinciali del lavoro e della massima occupazione per tutte le controversie di lavoro), un progetto di legge di iniziativa parlamentare della passata legislatura, il c.d. progetto Folena, n. 4567/C faceva assumere una duplice veste al tentativo obbligatorio di conciliazione.
Nasceva allora una doppia raffigurazione dell’obbligatorietà: accanto al tentativo jussu legis anche un tentativo jussu judicis.
L’art. 10 prevedeva la sottoposizione al tentativo di conciliazione, a pena di improcedibilità della domanda, di una fetta assai ampia delle cause civili e cioè le cause entro il valore di 50 milioni di lire di risarcimento del danno da incidente stradale, nonché le cause tra professionisti (vale a dire, imprenditori) e professionisti e consumatori.
L’art. 11 prevedeva che il giudice, terminata l’udienza di trattazione potesse rimettere la causa davanti ad un conciliatore (oltre che direttamente davanti ad un arbitro o ad un collegio arbitrale, rimessione quest’ultima ammessa anche per il caso di fallimento della conciliazione) sospendendo il processo e fissando un termine ordinatorio non superiore a 90 giorni per l’esaurimento del procedimento di conciliazione.
Per rendere appetibile l’istituto, veniva previsto che in caso di successo del tentativo di conciliazione, il relativo verbale fosse dotato di efficacia esecutiva per tutte le forme di esecuzione e per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale (diventando, per così dire, più potente persino di certe categorie di provvedimenti esecutivi di condanna emanabili dal giudice, come le ordinanze di condanna al pagamento di somme del processo del lavoro e le ordinanze di condanna ex artt. 186 bis e quater c.p.c. del processo ordinario, che non sono titolo per l’iscrizione dell’ipoteca).
Poiché sembra che le intenzioni dell’attuale esecutivo e del Parlamento siano orientate nella medesima direzione, dico subito che, a mio giudizio, i compiti di un legislatore saggio, di fronte al mezzo alternativo di risoluzione delle dispute rappresentato dalla conciliazione stragiudiziale dovrebbero limitarsi a interventi leggeri e, per così dire, di cornice. Si tratta di indirizzare le diverse iniziative in modo che siano regolate garantendo il rispetto di canoni fondamentali, come l’imparzialità dell’organo di conciliazione e la parità delle armi tra le parti. Basterebbe al riguardo assicurare l’esecutività del verbale di conciliazione soltanto quando quei canoni siano osservati.
Sono invece radicalmente contrario all’ulteriore introduzione di tentativi obbligatori di conciliazione. Essa non serve a conseguire lo scopo che viene dichiaratamente perseguito: ottenere con questo mezzo una drastica riduzione del contenzioso davanti ai giudici.
La storia comparata del processo dovrebbe pur insegnare qualcosa. Il tentativo obbligatorio di conciliazione davanti al juge de paix era previsto per tutte le cause in materia di diritti disponibili dal codice di procedura civile napoleonico. Ma ben presto ci si rese conto che una simile previsione era soltanto fonte di inutili complicazioni e allungamenti delle durate processuali. Iniziò così un’opera di svuotamento del comando legislativo ad opera della giurisprudenza, culminato con la formale abrogazione nel 1906.
Nella stessa direzione va poi la recente esperienza applicativa del tentativo obbligatorio nel processo del lavoro. Dal momento dell’entrata in vigore della nuova disciplina gli uffici provinciali del lavoro e della massima occupazione, a strutture intatte –secondo un’abitudine tutta italiana di pretendere che le riforme siano fatte a costo zero- sono stati inondati di un gran numero di istanze di conciliazione, senza possibilità di distinguere tra istanze introdotte per l’esistenza, almeno da una parte, di una reale volontà conciliativa e istanze introdotte esclusivamente per ottemperare al comando legislativo.
L’inevitabile conseguenza è stata un atteggiamento di resa burocratica del personale degli uffici, che tra l’altro non sono neppure in grado di convocare le parti entro il termine di sessanta giorni previsto dalla legge.
Le prime ricerche empiriche confermano questa triste realtà. Dati disastrosi risultano da un’indagine condotta presso l’ufficio provinciale di Torino ( ). Nel secondo semestre 1997, in regime di tentativo facoltativo le domande pervenute furono 1215 e le conciliazioni effettuate 614; nel secondo semestre del 1998, in regime di tentativo obbligatorio, di fronte a 7809 domande pervenute le conciliazioni effettuate furono solo 550, addirittura con un calo in cifre assolute, per non parlare della percentuale.
Se è vero che introdurre come condizione di procedibilità della domanda l’esperimento di un tentativo di conciliazione non viola la disposizione costituzionale sul diritto di azione, trattandosi di un caso di giurisdizione condizionata che non rende troppo difficile l’accesso alla tutela giurisdizionale è dunque altrettanto vero che ci troviamo di fronte ad una scelta molto inopportuna.
L’inopportunità risulta d’altronde chiara anche su altri piani. Come, ad esempio, l’insensato formalismo di talune applicazioni giurisprudenziali. Basti pensare che si è arrivati a ritenere che il tentativo di conciliazione è obbligatorio anche per la proposizione del ricorso per decreto ingiuntivo, malgrado la migliore dottrina si sia subito premurata di sottolineare che la soluzione negativa s’impone di fronte alla palese assurdità di pretendere l’instaurazione di un contraddittorio davanti all’ufficio conciliativo come condizione per ottenere un provvedimento inaudita altera parte; o che si è arrivati a rimettere in primo grado ad opera del giudice di appello nel caso di mancata proposizione dell’istanza di conciliazione (nel caso particolare quella prevista dall’art. 5 l. 108/90), per non avere il giudice a quo preso in considerazione l’eccezione di improcedibilità a suo tempo proposta dalla controparte; o che magari si arriverà, al peggio non c’è mai fine, a pretendere l’instaurazione del tentativo di conciliazione come “condizione di procedibilità” della domanda riconvenzionale.
Peccato, anche perché, come dice il filosofo, la ragione parla a chi la vuole intendere, mentre non sembra che l’odierno legislatore processuale italiano abbia una particolare propensione per quest’intendimento. A meno di un forte impegno di contrasto culturale non possiamo aspettarci una prossima manifestazione di jus poenitendi, che risparmi a molti uffici della pubblica amministrazione e magari anche delle Camere di commercio, sull’onda della fattispecie tutto sommato innocua (per il loro scarsissimo numero) delle controversie di subfornitura, un’inutile dispendio di attività e vorticosi giri di carte e a molti giudici la tentazione di cedere al fascino sottile del summum jus summa injuria. |