BANKING AND INSURANCE PRODUCTS
Dicta


L’ONERE DELLA PROVA E LA PROTEZIONE DEL CONSUMATORE IN ITALIA

Dott. Eugenio Dalmotto, ricercatore all’Università di Torino

Sommario: 1. ONERE DELLA PROVA E SUA INVERSIONE - 1.1. L’onere della prova e la formazione del materiale istruttorio - 1.2. La ripartizione legale dell’onere della prova: la distinzione tra fatti costitutivi e impeditivi - 1.3. (Segue): ... la fluidità della distinzione - 1.4. L’inversione o modificazione dell’onere della prova: la legge - 1.5. (Segue): ... la giurisprudenza - 1.6. (Segue): ... i patti - 2. CONSUMATORI E INVERSIONE LEGALE DELL’ONERE DELLA PROVA 2.1. Le esigenze di tutela e la formazione di una disciplina speciale - 2.2. Le singole ipotesi: la prova del danno da prodotti difettosi - 2.3. (Segue): .... la prova della diligenza nella prestazione di servizi di investimento finanziario - 2.4. (Segue): .... la prova dell'abusività di una clausola nei contratti con i consumatori – 3. CONSUMATORI E INVERSIONE GIURISPRUDENZIALE DELL’ONERE DELLA PROVA - 3.1. Dall’assenza di una normativa sulle azioni collettive - 3.2. (Segue): .... alla formazione di presunzioni giurisprudenziali – 4. CONSUMATORI E INVERSIONE CONTRATTUALE DELL’ONERE DELLA PROVA - 4.1. Il limite dell’eccessiva difficoltà all’esercizio del diritto - 4.2. La vessatorietà della clausola di inversione o modificazione nei contratti standard - 4.3. L’abusività della clausola di inversione o modificazione nei contratti con i consumatori: la previsione generale - 4.4. (Segue): ... la casistica

1. ONERE DELLA PROVA E SUA INVERSIONE

1.1. L'onere della prova e la formazione del materiale istruttorio
Nel sistema processuale italiano l'istruzione probatoria viene rimessa all'iniziativa delle parti.
Spetta alle parti, in applicazione del principio dispositivo, a cui si ispira il nostro processo civile, produrre i documenti e chiedere l’ammissione dei vari mezzi di prova, come l’interrogatorio formale, il giuramento, la testimonianza, previsti dal codice di rito. Il principio dispositivo viene enunciato dal 1° comma dell’art. 115 c.p.c., secondo cui il giudice deve porre a fondamento della decisione “le prove proposte dalle parti”. Tale regola, come lo stesso art. 115 c.p.c. espressamente consente, è attenuata dai poteri esercitabili d’ufficio che la legge talora riconosce al giudice. Ma l'esercizio di poteri di tipo inquisitorio riveste carattere sicuramente eccezionale. Nella grande maggioranza dei casi il giudice si limita ad ammettere i mezzi di prova proposti dalle parti, se rilevanti ai fini della decisione ed ammissibili secondo la legge, e a sorvegliare che la loro assunzione avvenga con l'osservanza delle modalità stabilite dal codice di procedura civile.

Esaurita la fase della formazione del materiale istruttorio, il giudice decide la causa sulla base delle prove raccolte .

È possibile che, al momento della decisione, il giudice debba ricorrere al principio dell'onere della prova.

L’onere della prova rappresenta la regola di giudizio grazie a cui il giudice decide le cause nelle quali il materiale istruttorio raccolto non consenta di ritenere provate le domande o le eccezioni proposte. Riguardando la valutazione e non la formazione del materiale istruttorio, tale regola vige tanto nei processi caratterizzati dal principio della disponibilità delle prove come in quelli caratterizzati, all’opposto, da tratti inquisitori, vale a dire dal possibile esercizio di poteri istruttori d’ufficio.

Il principio dell'onere della prova costituisce dunque il criterio decisorio operante nella situazione della mancanza o insufficienza della prova.

Tale criterio ripartisce il rischio della prova tra attore e convenuto.

L’attore deve provare i fatti costitutivi del diritto che intende far valere in giudizio: come recita il 1° comma dell’art. 2697 c.c., “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”.

Il convenuto è invece tenuto a provare gli eventuali fatti impeditivi, modificativi od estintivi, ossia le circostanze su cui si fonda la sua eventuale eccezione di inefficacia ovvero di modificazione od estinzione del diritto azionato dalla controparte: per il 2° comma dell’art. 2697 c.c., “chi eccepisce l’inefficacia dei fatti costitutivi del diritto, ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto, deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”.

Se pertanto l’attore non prova il diritto azionato, il giudice pronuncia sentenza con cui respinge la domanda dinanzi a lui proposta. La prova deve essere piena, non potendo il giudice accogliere la domanda nello stato di incertezza determinato da una prova incompleta.

Il principio dell’onere della prova come regola di giudizio , positivamente imposto dall’art. 2697 c.c., si inserisce coerentemente nel sistema del nostro processo. Infatti, in forza degli artt. 112 e 277 c.p.c., oltre che dell'art. 3 della l. 13.4.1988, n. 117, il giudice non può rifiutarsi di pronunciare, emettendo un semplice non liquet, né può rifugiarsi in una decisione interlocutoria, “allo stato degli atti”, che lasci la controversia impregiudicata, ma deve in ogni caso decidere accogliendo o respingendo la domanda . E per accogliere o respingere la domanda in assenza di prova sufficiente non potrà che operare la regola di cui all’art. 2697 c.c.: l'ordinamento non prevede che il giudice possa riaprire l’istruzione per andare alla ricerca della prova mancante o per integrare quella incompleta (salvo il deferimento del giuramento suppletorio ex art. 2736 c.c.) ; né prevede regole di giudizio alternative a quella in esame (salvo il criterio della liquidazione equitativa, che opera in forza degli artt. 1226, 2056 c.c. e 432 c.p.c. quando risulti che il valore della cosa o il danno o la somma dovuta per prestazioni di lavoro non possono essere provati nel loro preciso ammontare, e grazie al quale la legge consente di accogliere domande altrimenti da respingere, malgrado la certezza sull'an, per incertezza sul quantum).
Il contenuto della regola dell’onere della prova è, passando agli aspetti operativi, tra i più controversi. Era del resto inevitabile che il legislatore lasciasse ampio margine all'attività dell'interprete. Quest'ultimo ha, nel nostro caso, il delicato compito di distinguere tra fatti costitutivi e fatti impeditivi, modificativi od estintivi. Tale operazione, spesso assai opinabile, vale a determinare la concreta ripartizione ex art. 2697 c.c. dell’onere probatorio tra attore e convenuto.

1.2. La ripartizione legale dell’onere della prova: la distinzione tra fatti costitutivi e impeditivi
Fatti costitutivi del diritto, che devono essere provati dall’attore, sono i fatti a cui la legge ricollega la produzione di un determinato effetto giuridico.

Fatti impeditivi, modificativi o estintivi, che devono essere provati dal convenuto, sono invece quelli che vi si contrappongono. Singolarmente considerati, sono fatti impeditivi quelli che precludono la manifestazione dell’effetto giuridico; sono fatti modificativi quelli che mutano l’oggetto o il contenuto dell’effetto giuridico; sono fatti estintivi quelli che fanno cessare l’effetto giuridico.

Prendendo in esame una fattispecie contrattuale paradigmatica, la vendita, e ponendoci dal punto di vista di chi pretenda il pagamento del prezzo del bene venduto, il fatto costitutivo consisterà nell’accordo attraverso cui le parti hanno concluso il contratto; il fatto impeditivo andrà cercato in una causa di invalidità del contratto, come il dolo del venditore o l’incapacità dell’acquirente; il fatto modificativo potrà sopravvenire con il raggiungimento di un accordo per una dilazione del pagamento; il fatto estintivo potrà essere rappresentato dall’intervenuto pagamento del prezzo o dall'intervenuto decorso del termine di prescrizione.

La distinzione tra i fatti costitutivi e gli altri fatti diventa ovviamente molto complessa non appena ci si allontani dai casi esemplari.

In particolare, se è vero che la distinzione tra fatti costitutivi e fatti modificativi o estintivi non pone troppe difficoltà, stante l'assenza di sincronicità tra le due specie , deve considerarsi che la distinzione tra fatti costitutivi e fatti impeditivi è invece problematica e difficile. Questa difficoltà “deriva innanzi tutto dalla circostanza che tali ultimi hanno carattere sincronico, si perfezionano cioè nello stesso istante” .

L’ampia elaborazione esistente al riguardo non può essere qui riassunta.
Merita però precisare che solo il fatto specifico a cui la legge ricollega un dato effetto giuridico costituisce un fatto costitutivo. I requisiti di carattere generale che concorrono alla produzione dell’effetto giuridico non sono invece fatti costitutivi. Essi rilevano eventualmente quali fatti impeditivi. Questi concetti sono stati descritti spiegando che “non tutte le circostanze che devono concorrere per la produzione di un determinato effetto giuridico entrano senz’altro nella categoria dei fatti costitutivi: ad es., affinché un contratto possa formarsi validamente, è necessaria la capacità dei contraenti, la liceità dell’oggetto e della causa e così via (cfr. art. 1325 c.c.); ma fatto costitutivo è soltanto la conclusione del contratto, cioè il fatto specifico da cui deriva l’effetto giuridico che interessa, spogliato da tutti i requisiti di carattere generale che sono dati dalle circostanze concomitanti, che normalmente si accompagnano a quel fatto e che perciò, sebbene siano necessari perché possa sorgere l’effetto voluto, non possono tuttavia considerarsi come causa diretta dell’effetto stesso. Saranno perciò, al contrario, l’incapacità delle parti, l’invalidità del consenso, l’illiceità della causa o dell’oggetto ecc. che potranno essere fatti impeditivi, in quanto produttivi di nullità o annullabilità del contratto” .

Merita inoltre avvertire che la distinzione tra fatto specifico e requisiti di carattere generale, per quanto utile, non pare capace di definire se non approssimativamente i fatti costitutivi, che l’attore ha l’onere di provare. Partendo dal presupposto che sia corretto affermare che i requisiti generici che concorrono alla produzione dell’effetto giuridico, quali possono essere, in materia contrattuale, la capacità dei contraenti, la validità del consenso, la liceità della causa o dell’oggetto del contratto, costituiscono, visti dall’altro verso, dei fatti impeditivi, ancora non si risolve il problema di indicare precisi confini tra i fatti di un tipo e i fatti dell’altro tipo: non è agevole dire quando un certo fatto abbia un grado di specificità sufficiente a non assegnarlo alla categoria dei requisiti generici.

Merita infine soggiungere che non pare di grande aiuto equiparare i requisiti di carattere generale ai requisiti normalmente esistenti, quali per l’appunto sono la capacità dei contraenti, la validità del contratto e gli altri requisiti a cui ci si è in precedenza richiamati: il discrimine tra l’eccezionalità e la normalità è altrettanto insicuro che quello tra la specialità e la genericità. Tanto meno, poi, si può credere di raggiungere qualche risultato sostenendo che i requisiti generici ovvero quelli normalmente esistenti siano i fatti negativi, riguardo ai quali varrebbe il tradizionale principio negativa non sunt probanda: a prescindere da ogni altra considerazione, la giurisprudenza è ferma nel ritenere che la negatività del fatto non incide sulla natura costitutiva o meno dello stesso né determina una inversione dell’onere probatorio, traendone la conseguenza che, se il fatto negativo è costitutivo, occorre fornire la prova di quest’ultimo con la dimostrazione, anche tramite presunzioni, del fatto positivo contrario .

È lecito allora chiedersi se non sia meglio ricorrere ad altri criteri ancora, come quello della distinzione, all’interno della fattispecie dedotta in giudizio, tra fatti causali, di carattere costitutivo, e fatti occasionali, di carattere impeditivo. Sennonché un criterio incentrato sulla contrapposizione tra causa ed occasione non sembra migliore sul piano logico del criterio incentrato sulla contrapposizione tra genericità e specialità o tra normalità e eccezionalità. In questo solco c’è chi afferma che mancano criteri logico-formali sulla cui base effettuare la distinzione tra fatti costitutivi e impeditivi, dal momento che, sul piano logico, “tutti i fatti hanno pari forza causale ai fini della produzione di un effetto” .

1.3. (Segue): ... la fluidità della distinzione
Certo è che, qualsiasi criterio logico-formale si adotti, inevitabilmente permarrà, accanto a un nocciolo duro di ipotesi quali quelle a cui si è ricorsi per esemplificare casi di incontroverso riparto dell’onere della prova, un’area in penombra, dove non rimarrebbe che contare su “una certa empirica coordinazione tra il buon senso logico e le massime di esperienza” .
Non volendosi rinunciare al tentativo di mettere ordine in una materia altrimenti affidata proprio nei casi più difficili a criteri molto vaghi quali il buon senso e l'esperienza, è stato pertanto proposto che la distinzione tra fatti costitutivi e fatti impeditivi vada effettuata, più che con il ricorso ai tradizionali canoni logico-formali, intrinsecamente deboli, combinando altri criteri, che di volta in volta potranno essere di tipo storico, letterale, sistematico, teleologico ed empirico.
La dottrina ha annoverato tra i criteri di quest'ultimo genere: l’analisi della funzione attuale e della storia del singolo istituto; il ricorso all’interpretazione letterale, visto che spesso il legislatore indica chiaramente sul piano lessicale il soggetto che deve provare un determinato fatto (v. gli artt. 1218, 2050, 2051, 2052, 2053, 2054), anche attraverso la tecnica delle presunzioni legali (artt. 1147, 1335, 1709, 1767, 2600, 2706); la massima di esperienza secondo cui il fatto impeditivo è un fatto che, alla stregua della normalità e della verosimiglianza probabilmente non esiste; la regola di ragionevolezza secondo cui l’onere della prova deve essere accollato alla parte che abbia maggiore facilità ad assolverlo. Esemplificando, la natura di fatto impeditivo del vizio della volontà rispetto alla domanda di adempimento di un contratto, pacificamente riconosciuta dagli interpreti, discenderebbe dalla circostanza che la dichiarazione di volontà normalmente non è viziata.

La giurisprudenza non appare del resto insensibile a criteri che esulino da una rigida logica formale.
Tanto per richiamare un caso recentemente deciso, in un revirement del 1999 la Cassazione ha sottolineato l’importanza del criterio della facilità dell’accesso alla prova, significativamente osservando, nell’accollare al datore di lavoro l’onere di provare le dimensioni occupazionali entro cui non opera la tutela reale dal licenziamento illegittimo, che sarebbe irrazionale concepire un onere probatorio assoluto ed esclusivo a carico del lavoratore, al quale di regola sfuggono i dati concernenti l'organizzazione aziendale esterna all’unità produttiva di appartenenza .

Né si può trascurare che un canone "empirico" di interpretazione, quale quello della facilità nell'accesso alla prova, trova un puntuale riscontro di tipo sistematico: ricordato che l'art. 2698 c.c. impedisce alle parti di ripartire convenzionalmente l'onere probatorio in modo da rendere ad una di esse eccessivamente difficile l'esercizio del diritto, pare ragionevole sostenere che, laddove sia dubbia la distinzione legale tra fatto costitutivo ed impeditivo, non deve essere consentito all'interprete di realizzare, identificando il fatto costitutivo del diritto di chi agisce in giudizio in un fatto eccessivamente difficile da provare, il risultato proibito alle parti.
Sono dunque molti i criteri che entrano potenzialmente in gioco nel determinare il riparto dell'onere.

E le difficoltà non finiscono qui: la qualificazione di un fatto come costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo, da cui dipende la ripartizione dell'onere della prova, non può operarsi in astratto, dovendosi di volta in volta analizzare la singola pretesa fatta valere in giudizio. La relatività della distinzione diviene evidente non appena si assumano differenti punti di vista rispetto ad un medesimo fatto. Prendendo a riscontro l’altrui inadempimento: appare chiaro che non si può stabilire a priori a chi è accollato l'onere di provare l'altrui inadempimento, non potendosi stabilire se l'altrui inadempimento è un fatto costitutivo oppure modificativo o impeditivo ovvero estintivo altro che con il concreto riferimento alla pretesa azionata. Così, l'altrui inadempimento deve considerarsi un fatto costitutivo, se il diritto fatto valere in giudizio è quello alla risoluzione del contratto, mentre quel medesimo altrui inadempimento deve considerarsi un fatto impeditivo se è eccepito da colui il quale, in un contratto a prestazioni corrispettive, sia stato convenuto in giudizio da un attore che voglia ottenerne la condanna all'adempimento. Non può pertanto affermarsi che un determinato fatto sia di per sé costitutivo oppure modificativo o impeditivo ovvero estintivo. Si può in compenso essere consapevoli della variabilità della qualificazione a seconda di quale pretesa sia stata azionata in giudizio e di quale punto di vista venga assunto.

In definitiva, l’art. 2697 c.c. costituisce “una vera e propria norma in bianco” , in cui il riferimento ai fatti costitutivi, impeditivi, estintivi o modificativi assume configurazioni diverse a seconda della fattispecie sostanziale in esame e, nella prospettiva processuale, a seconda della domanda proposta dall’attore.

Resta un’ultima precisazione. Il principio dell’onere della prova ha ad oggetto il giudizio sui fatti. Se le parti non provano i fatti costitutivi, impeditivi, estintivi o modificativi, dedotti in causa, il giudice decide la controversia applicando la regola di cui all’art. 2697 c.c. Ma è irrilevante, ai fini del giudizio sul diritto, che le parti non dimostrino che a un certo fatto si applica una determinata norma giuridica: l’ordinamento presume in via assoluta che il giudice conosca il diritto (iura novit curia) e quindi nega la stessa possibilità che in tema di giudizio sul diritto si verifichi una incertezza da sciogliere ricorrendo ad una regola di giudizio quale quella dettata dall’art. 2697 c.c. Ciò accade, in particolare modo, non solo se la norma da applicare discende dalla legge italiana o comunque da una delle fonti che concorrono a formare il diritto interno, ma altresì quando la controversia affidata alla cognizione del giudice italiano presenti elementi di estraneità rispetto al nostro ordinamento tali da determinare il rinvio alle norme del sistema giuridico straniero con il quale la fattispecie appare maggiormente collegata .

1.4. L’inversione o modificazione dell’onere della prova: la legge
Il principio dell’onere della prova soffre numerose inversioni e modificazioni di ordine legislativo, giurisprudenziale e pattizio rispetto a quanto enunciato in termini generali dall’art. 2697 c.c. Talvolta l'onus probandi viene posto a carico del convenuto, anziché dell'attore: ciò realizza una inversione della regola. Talvolta l'onere probatorio resta a carico dell'attore ma viene semplificato, agevolando così il suo assolvimento: in questo caso, anziché una inversione, si ha solo una modificazione dell'onere della prova .

Le numerosissime ipotesi e le varie ragioni correlate all’inversione o modificazione legislativa di quello che altrimenti sarebbe il naturale assetto dell’onere della prova non sono sintetizzabili in poche righe.

Basti dire che in taluni casi il legislatore ha inteso cristallizzare regole di esperienza, che in altri casi ha inteso promuovere interessi ritenuti meritevoli di tutela, che in altri casi ancora ha inteso tutelare il soggetto considerato sfavorito nell’attività di ricerca della prova perché socialmente od economicamente debole o perché comunque gravato di un compito difficile da assolvere in determinati contesti (lontananza della prova, localizzazione della stessa nella sfera di dominio della controparte ecc.).

Basti poi aggiungere che talvolta due o più di queste ragioni giustificative si combinano tra loro .
La materia è oltretutto complicata dalla circostanza che quelle che ad alcuni paiono ipotesi di inversione legislativa della regola dell’onere della prova ad altri invece paiono conferme normative del principio generale dettato dall’art. 2697 c.c.

Quali ipotesi di inversione o modificazione legale dell’onere della prova si possono comunque ricordare, in via meramente indicativa, alcune disposizioni di legge .

a) In materia di lavoro: l’art. 4, 2° comma, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, di attuazione della direttiva 1999/70/CE, sulla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, secondo cui il datore di lavoro deve provare l'obiettiva esistenza delle ragioni che giustificano l'eventuale proroga del termine di durata del contratto temporaneo ; l’art. 5 della l. n. 604 del 1966, sui licenziamenti individuali, secondo cui spetta al datore di lavoro l’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento impugnato dal lavoratore ; l’art. 4, 5° comma, della l. n. 125 del 1991, per il quale l’onere della prova della discriminazione per sesso è invertito , spettando al datore dimostrarne l’insussistenza quando il ricorrente fornisca elementi presuntivi di tale discriminazione ; la direttiva 29.6.2000 n. 2000/43/CE, che, allargando la soluzione già adottata per i casi di discriminazione basata sul sesso , per dare maggior corpo al principio della parità di trattamento avverso violazioni di ordine razziale o etnico, ha introdotto l’inversione dell’onere della prova riguardo alle discriminazioni dirette o indirette (e cioé perpetrate tramite una pratica apparentemente neutra ma che in realtà mette persone di una razza o origine etnica in una posizione di particolare svantaggio).

b) In materia di responsabilità civile: l’art. 2050 c.c., che richiede all’esercente di attività pericolose di provare di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno da lui cagionato; gli artt. 2051 e 2052 c.c., che nel caso di danno cagionato da cose in custodia o da animali impongono al custode e al proprietario la prova del caso fortuito; l’art. 2053 c.c., che accolla al proprietario dell’edificio di provare, ai fini della liberazione dalla responsabilità, che i danni derivati dalla rovina dell’edificio siano dovuti a difetto di manutenzione o a vizio di costruzione; l’art. 2054 c.c., secondo cui il conducente è obbligato a risarcire il danno prodotto dalla circolazione del veicolo se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno.

c) In materia di società: l’art. 143 del d.lgs. 24.2.1998, n. 58, dove si dispone che nei giudizi di risarcimento dei danni derivanti da violazione delle disposizioni in tema di sollecitazione e raccolta delle deleghe di voto spetta a chi ha chiesto le deleghe l’onere della prova di aver agito con l'opportuna diligenza ossia spetta a quest'ultimo provare che le informazioni contenute nel prospetto o nel moduli di delega e le altre eventualmente diffuse erano idonee a consentire all’azionista delegante di assumere una decisione consapevole.

1.5. (Segue): ... la giurisprudenza
Quanto alla giurisprudenza, c’è da tenere presente che nelle sentenze spesso si ritiene ovvia o normale o ragionevole, senza peraltro esplicitare le ragioni di tale ovvietà, normalità o ragionevolezza, l'inversione o modificazione degli oneri probatori.

L'operazione a cui si accenna, che prescinde da specifiche previsioni normative, talvolta giunge ad invertire l’onere probatorio ma con maggiore frequenza si limita a modificarlo, realizzando, a vantaggio dell’attore, una semplificazione del giudizio di fatto: i giudici ritengono che, provata la sussistenza di determinate circostanze, si sia tipicamente in presenza di quanto si deve provare . Così, ad es., ai fini della revocatoria fallimentare di cui al 2° comma dell’art. 67 del r.d. 16.3.1942, n. 267, per provare la conoscenza dello stato d'insolvenza da parte di colui che ha ricevuto il pagamento, si ritiene sufficiente provare l’esistenza di protesti o procedure esecutive o iscrizioni di ipoteche nei confronti del debitore poi fallito.

Si parla in proposito di presunzioni giurisprudenziali , intendendosi che il consolidamento in giurisprudenza di uno “schema tipo” di ragionamento sulla regola probatoria non consente più di parlare di presunzioni semplici ex art. 2729 c.c., che costituiscono dei procedimenti logici operati caso per caso dal singolo giudice, e nel contempo non consente ancora di parlare di presunzioni legali vere e proprie attraverso cui si realizzi l’inversione o modificazione legislativa dell’onere della prova .

1.6. (Segue): ... i patti
Ma l’onere della prova può essere invertito o modificato anche convenzionalmente, in virtù di un accordo tra le parti.

Questa possibilità viene espressamente contemplata, con alcune limitazioni, dall’art. 2698 c.c.
La ratio dell’art. 2698 c.c. è stata individuata nell’intento di certezza che le parti possono avere interesse a perseguire, posto che in molti casi la distinzione tra fatti costitutivi e impeditivi è incerta e l’applicazione della regola legale di ripartizione dell’onere della prova è quindi insicura
È però indubbio che la ripartizione convenzionale degli oneri probatori spesso si riflette sulla concreta azionabilità del diritto e quindi sull’equilibrio contrattuale, che può essere alterato anche profondamente da un patto sull’onere della prova.

Ciò spiega perché l’art. 2698 c.c. disponga la nullità dei patti di inversione o modificazione dell’onere della prova “quando si tratta di diritti di cui le parti non possono disporre o quando l’inversione o la modificazione rende eccessivamente difficile l’esercizio del diritto” .

Riguardo al divieto di invertire o modificare convenzionalmente l’onere della prova allorché il patto abbia ad oggetto diritti indisponibili, non si pongono specifici problemi: è evidente che se le parti non possono disporre direttamente del diritto non possono disporne neppure indirettamente, agevolando o ostacolando la sua prova in sede giudiziale.

Riguardo poi al tema dell’eccessiva difficoltà di esercitare il diritto, che la legge indica quale ulteriore divieto rispetto alla possibilità di stipulare validi patti di inversione o modificazione dell’onere della prova, il problema interpretativo maggiore consiste nel riempire di contenuto la generica formula legislativa. L’eccessiva difficoltà di fornire la prova può infatti dipendere da molteplici fattori, quali l’accesso ai dati di fatto o il costo di determinati accertamenti e soltanto una valutazione complessiva, che tenga conto di ogni aspetto della vicenda, consente di verificare se l’inversione dell’onere probatorio renda eccessivamente difficile l’esercizio del diritto .

Deve ritenersi infine che i limiti di cui all’art. 2698 c.c. valgano anche per quei patti che riservino ad un determinato mezzo la formazione della prova o che escludano che quest’ultima possa essere raggiunta in un determinato modo. Tali patti, infatti, incidendo sulla formazione del materiale istruttorio, finiscono per influire sulla decisione finale del giudice e possono quindi essere considerati quali patti modificativi dell’onere della prova. Così, ad esempio, i patti che impongano di fare riferimento alle risultanze di rilevatori meccanici o elettronici, ovvero i patti che impongano la prova documentale o che vietino quella per testimoni, potranno ritenersi validi solo in quanto abbiano ad oggetto diritti disponibili e non rendano eccessivamente difficile l’esercizio degli stessi.

2. CONSUMATORI E INVERSIONE LEGALE DELL’ONERE DELLA PROVA

2.1. Le esigenze di tutela e la formazione di una disciplina speciale
I principi in precedenza esposti trovano, nella materia del diritto dei consumatori, una applicazione modulata sulle particolari esigenze di protezione della parte debole del rapporto.
Nel tempo, la legislazione speciale ha infatti introdotto importanti ipotesi di inversione o modificazione legale dell'onere della prova favorevoli ai consumatori ed ha altresì ristretto la possibilità per le parti di pattuire inversioni o modifiche che, considerato lo squilibrio di forza economica, quasi sempre costituiscono uno svantaggio per questi ultimi.

Pure i giudici si sono dimostrati sensibili alla tutela dei consumatori, rinunciando spesso ad esigere la prova rigorosa dei fatti posti dalla parte debole a fondamento della propria domanda
Iniziando dalle inversioni o modificazioni legislative dell’onere della prova legislativamente previste a favore dei consumatori, i casi maggiormente significativi sono quelli della prova della responsabilità del produttore per danno da prodotti difettosi, della prova della diligenza dell’intermediario nella prestazione di servizi di investimento finanziario e della prova della natura abusiva della clausola nei contratti disciplinati dagli artt. 1469 bis e segg. c.c.

2.2. Le singole ipotesi: la prova del danno da prodotti difettosi
Storicamente, il primo intervento di modificazione della regola probatoria a favore del consumatore è stato, nel nostro ordinamento, quello operato dall’art. 8 della l. 24.5.1988, n. 224, di attuazione della direttiva 85/374/CEE del 25.7.1985, sulla responsabilità del produttore per danno cagionato da prodotti difettosi alla persona o alle cose del danneggiato .

In argomento è importante ricordare che, poiché quasi mai il produttore vende direttamente quanto produce, ma tra la produzione e la distribuzione finale si interpone il fenomeno delle cosiddette vendite a catena, generalmente il produttore risponde verso il consumatore dei difetti del proprio prodotto a titolo di responsabilità extracontrattuale e non a titolo di responsabilità contrattuale.

Ciò poneva il problema, per il consumatore che agisse in giudizio, di provare, in applicazione delle regole generali ricavabili dagli artt. 2043 e 2697 c.c., la colpa del produttore, posto che la colpa è da considerare fatto costitutivo del diritto al risarcimento del danno extracontrattuale.
Come è facilmente intuibile, offrire un tal tipo di prova appariva estremamente difficile per il consumatore.

Questa è la ragione per cui, in un’ottica di protezione dei consumatori, il legislatore, dettando l’art. 8 della l. n. 224 del 1988, ha previsto che, una volta provato il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno, il danneggiato non deve provare anche la colpa del fabbricante (come dovrebbe secondo la regola generale valevole nel campo extracontrattuale) ma è quest’ultimo a dover provare i fatti che possono escludere la sua responsabilità. Si è così raggiunto il risultato di far operare a vantaggio del consumatore, nonostante l’assenza di un diretto rapporto contrattuale con il produttore, la regola di ripartizione dell’onere della prova valevole ex art. 1218 c.c. in materia di responsabilità contrattuale, quando il contratto abbia ad oggetto una obbligazione di risultato, dove basta provare l’inadempimento dell’altra parte (nel nostro caso, l’inadempimento del venditore, consistente nell’aver fornito un prodotto difettoso) e il danno conseguente.

2.3. (Segue): .... la prova della diligenza nella prestazione di servizi di investimento finanziario
Più significativo ancora, specie nell’attuale periodo, segnato da scandali e crolli finanziari, è però il disposto dell’ultimo comma dell’art. 23 del d.lgs 24.2.1998, n. 58, secondo cui, nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento finanziario, spetta ai soggetti abilitati (e cioé alle società di intermediazione mobiliare, alle banche e agli intermediari finanziari iscritti nell’elenco previsto dall’art. 107 d.lgs. 1.9.1993, n. 385) “l'onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta”.

In sostanza, a fronte di una azione di risarcimento danni, non è il consumatore a dover provare la colpa della banca contro cui agisce (come dovrebbe fare in applicazione dei principi generali, dal momento che, pur vertendosi nel campo della responsabilità contrattuale, l’intermediario finanziario ha un semplice obbligo di diligenza) ma è la banca a dover provare ad aver operato diligentemente e quindi, innanzitutto a dover provare di aver adeguatamente informato il cliente. L’intermediario finanziario ha infatti il dovere, ex art. 21 d.lgs. n. 58 del 1998, di operare in modo che i clienti siano sempre adeguatamente informati, il che, ai sensi dell’art. 28 del regolamento Consob 1.7.1998, n. 11522, si traduce nell’obbligo di consegnare agli investitori un dettagliato documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari e soprattutto nell’obbligo di fornire “all'investitore informazioni adeguate sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni della specifica operazione o del servizio, la cui conoscenza sia necessaria per effettuare consapevoli scelte di investimento o disinvestimento” .

Questi principi sono stati recentemente applicati da un giudice territoriale, adito da una coppia di coniugi resisi acquirenti presso la propria banca di una ingente quantità di obbligazioni argentine (i famigerati “tango bonds”), divenuti carta straccia a seguito del crollo dei mercati e della grave crisi finanziaria abbattutasi sullo Stato argentino . Il giudice ha infatti rilevato come l’onere di provare di avere agito con la specifica diligenza richiesta, posto a carico dei soggetti abilitati all’esercizio dei servizi di investimento dall’art. 23, ultimo comma, d.lgs. n. 58 del 1998, non fosse stato assolto dalla banca. In particolare, la banca non avrebbe assolto l’onere di provare di essersi comportata in conformità di quanto prescritto dagli artt. 21 d.lgs. n. 58 del 1998 e 28 del regolamento Consob n. 11522 del 1998, non essendo stata in grado di provare di aver fornito una adeguata informazione circa la natura altamente rischiosa dell’investimento (nel periodo antecedente l’acquisto dei titoli, le maggiori agenzie specializzate in materia avevano attribuito ai titoli di debito argentino un rating estremamente basso, rivedendo ripetutamente al ribasso le proprie previsioni, ma non è stato provato che i clienti fossero stati espressamente avvertiti di tale circostanza) . Per questi motivi la banca è stata considerata colpevole di aver agito senza la specifica diligenza prescritta e quindi condannata al risarcimento del danno subito dagli acquirenti delle obbligazioni, quantificato in una somma pari all’entità dell’investimento, essendo ormai improbabile, dopo le pubbliche dichiarazioni di default da parte dello Stato argentino, un futuro rimborso anche solo parziale dei titoli.

2.4. (Segue): .... la prova dell'abusività di una clausola nei contratti con i consumatori
Un’ulteriore ipotesi di inversione legislativa dell’onere della prova si ha nel campo della disciplina speciale di tutela dei consumatori innestata nel corpo del codice civile, agli artt. 1469 bis e segg. c.c., dall’art. 25 della l. 6.2.1996, n. 52, di attuazione della direttiva 93/13/CEE .
Tale disciplina si caratterizza per la qualità soggettiva dei contraenti: uno dei contraenti deve essere un consumatore e l’altro un “professionista”, vale a dire una persona fisica o giuridica che esercita una attività imprenditoriale o professionale .

Essa prevede, ai sensi del 1° comma dell’art. 1469 bis c.c., che si considerino vessatorie ovvero, secondo una diversa terminologia, “abusive” (e cioè tali da realizzare a danno della parte debole un “abuso”) le clausole che “determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”.

Dall’abusività della clausola discende, ex art. 1469 quinquies, 1° comma, c.c., la sua inefficacia.
In base ai principi generali il consumatore che intendesse far dichiarare l’inefficacia di una clausola abusiva dovrebbe quindi provare che essa determina a suo carico un significativo squilibrio.

Il suo compito è tuttavia semplificato dal 3° comma dell’art. 1469 bis c.c., secondo cui “si presumono vessatorie fino a prova contraria” le clausole tipizzate ai numeri da 1) a 20) del medesimo comma.

Poiché le clausole tipizzate ai numeri da 1) a 20) sono assai, il legislatore ha in pratica invertito l’onere della prova dell’abusività della clausola. Tutte le volte in cui ricorra una delle ipotesi di cui ai nn. da 1) a 20 ) dell’art. 1469 bis c.c. il consumatore sarà infatti esonerato dall’onere di provare il significativo squilibrio e toccherà semmai al professionista provare che un tale squilibrio non si realizza, negando così la sussistenza dell’abusività.

Deve ritenersi a carico del professionista anche la prova che la clausola sia stata individualmente trattata , da cui consegue, ai sensi del 4° comma dell’art. 1469 ter c.c.,

l’esclusione dell’abusività della stessa
La prova della trattativa individuale - vale la pena di aggiungere - non potrà ritenersi assolta per il solo fatto che il contratto sia stato stipulato davanti a un notaio : la lettura del contratto imposta dalla l. notarile non può certo garantire che le clausole contrattuali raccolte nell’atto pubblico costituiscano il risultato di una trattativa.

La prova della trattativa individuale non potrà trarsi neppure dalla circostanza che la clausola sia stata scritta di proprio pugno dal consumatore o comunque risulti specificamente approvata mediante apposita sottoscrizione . L’esperienza dei contratti per adesione ha dimostrato che la specifica approvazione per iscritto, richiesta a pena di inefficacia per le clausole vessatorie ex art. 1341 c.c., appresta una tutela formale del tutto insufficiente, a cui la legge sulle clausole abusive ha inteso per l'appunto ovviare: la specifica approvazione per iscritto rende sicuri che clausola sia stata conosciuta (e nemmeno sempre, visto che la firma sotto le clausole o il richiamo alle clausole vessatorie viene spesso concessa dal sottoscrittore senza sufficiente consapevolezza), ma la prova della conoscenza della clausola non dimostra che si sia svolta una trattativa, potendo benissimo l'aderente essere stato messo di fronte alla secca alternativa tra "prendere o lasciare". Né potrà riconoscersi efficacia ad una dichiarazione inserita in calce al contratto in cui il consumatore attesti che le clausole siano state oggetto di specifica trattativa : tale attestazione costituirebbe una confessione stragiudiziale che, in quanto prova legale, avrebbe per effetto di sancire a carico del consumatore limitazioni all’efficace deduzione di diversa prova. Ed è pertanto evidente che, rendendo una dichiarazione del tipo di quella descritta, il consumatore renderebbe una dichiarazione di scienza assimilabile, in forza del rinvio operato dall’art. 1324 c.c. , alla stipulazione della clausola vessatoria prevista dal n. 18 del 2° comma dell’art. 1469 c.c. che per l’appunto considera vessatorie e quindi inefficaci ex art. 1469 quinquies c.c. le “clausole che hanno per oggetto o per effetto di (...) sancire a carico del consumatore (...) limitazioni all’allegazione di prove”. Non a caso, del resto, nell’ordinamento tedesco, il n. 15 del § 11 dell’ABG-Gesetz, subito dopo aver previsto l’inefficacia dei patti di inversione dell’onere della prova, contempla l’inefficacia della clausola, inserita in condizioni generali di contratto, con cui il predisponente faccia attestare all’altra parte fatti determinati, tra i quali può per l’appunto ricomprendersi l’avvenuto svolgimento di trattative.

Riguardo invece all’ipotesi del 3° comma dell’art. 1469 ter c.c., secondo cui non sono non sono vessatorie le clausole che riproducono disposizioni di legge, non sembra necessario che essa venga allegata e provata dal professionista che intenda negare l’abusività: l’ipotesi della riproduzione di disposizioni di legge deve essere infatti ricondotta, più che al giudizio di fatto, al giudizio di diritto, in relazione al quale opera il principio iura novit curia .

3. CONSUMATORI E INVERSIONE GIURISPRUDENZIALE DELL’ONERE DELLA PROVA

3.1. Dall’assenza di una normativa sulle azioni collettive
Ma oltre che materia prediletta per l’inversione o modificazione legislativa dell’onere della prova, il campo della tutela dei consumatori sembra, specie nell’attuale momento, particolarmente predisposto alla formazione di presunzioni giurisprudenziali.

In proposito, occorre riflettere sul fatto che nascendo soprattutto su impulso dell’Unione europea e costituendo il risultato di successive stratificazioni, il sistema italiano di tutela processuale dei consumatori è di recente e disorganica formazione.

Il legislatore si è infatti mosso, più che perseguendo un coerente piano d’azione, dando di volta in volta attuazione alle direttive emanate a livello comunitario su singoli, ancorché importanti, aspetti di disciplina.

Ciò ha comportato l’emergere di una normativa alquanto frastagliata e con vistose carenze.
Da un lato, si è avuta una introduzione solo parziale, in pratica limitata alla sola tutela inibitoria, delle azioni collettive e cioé delle azioni che possono venire instaurate, nell’interesse della generalità dei consumatori, dagli enti esponenziali degli stessi, quando vengano violati interessi collettivi o diffusi .

Dall’altro lato, proprio la mancanza di una soddisfacente disciplina delle azioni collettive, completamente assente sotto il profilo delle azioni per il risarcimento del danno, ha indotto il movimento consumeristico a cogliere le opportunità offerte da istituti processuali non specificamente immaginati per la tutela dei consumatori ma, piuttosto, a suo tempo immaginati per le "piccole" liti.

Si è così assistito, negli ultimi anni, al fenomeno dei ricorsi di massa al giudice di pace ossia al giudice che, nell’ordinamento italiano, ha la competenza per valore più bassa e presso cui la procedura è connotata dalle caratteristiche della semplicità, rapidità ed economia.
Lo schema applicato è lineare.

Dapprima, singoli consumatori, supportati dai legali delle associazioni, intentano cause "pilota" dinanzi al giudice ordinario oppure denunciano alle competenti autorità di vigilanza, come l’Antitrust o la Consob , comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori.

Se tali cause ovvero le denunce si risolvono favorevolmente, creando gli opportuni precedenti, i legali delle associazioni predispongono appositi moduli che, normalmente in cambio di una sollecitazione al tesseramento, vengono messi a disposizione dei singoli consumatori per avviare presso il giudice di pace il relativo procedimento volto ad ottenere la liquidazione del danno individualmente subito . In tal modo, i consumatori possono ottenere un titolo esecutivo rapidamente e quasi senza affrontare costi legali, posto che davanti al giudice di pace le parti possono stare in giudizio personalmente, senza l’assistenza di un difensore, quando la causa non ecceda il valore di un milione di lire o comunque se il giudice lo autorizza .

3.2. (Segue): .... alla formazione di presunzioni giurisprudenziali
In teoria, ciascuno dei singoli consumatori che agisca presso il giudice di pace per ottenere il risarcimento della quota di danno subito in proprio dovrebbe provare tutti gli elementi costituitivi della propria pretesa.

In pratica, però, i giudici non esigono che, nei procedimenti di volta in volta intentati a seguito dell’esito positivo di una causa "pilota" o di un provvedimento di una autorità di vigilanza, i singoli consumatori provino nuovamente quanto già accertato altrove. Ovviamente, la pronuncia resa in un altro processo non può esplicare efficacia di giudicato, essendo stata resa tra altre parti. Né tanto meno questa efficacia può averla un provvedimento di una autorità di vigilanza, che non è nemmeno un provvedimento giurisdizionale. La spiegazione è dunque che in questa situazione si consolidino presunzioni giurisprudenziali che realizzano a vantaggio del consumatore che agisca una semplificazione del giudizio di fatto, esonerandolo dal provare quanto già provato in una causa “pilota” o in procedimento dinanzi ad una autorità di vigilanza. Una tale modificazione degli oneri probatori è del resto ragionevole se si tiene presente che una vera parità delle armi tra le parti non è certo possibile quando il singolo consumatore agisca isolatamente dinanzi al giudice di pace, spesso addirittura senza l’assistenza di un avvocato, mentre è possibile che in una “causa pilota” le associazioni dei consumatori riescano ad organizzare un collegio di difesa e a mobilitare risorse comparabili a quelle degli avversari. E ciò può essere ancora più vero quando a monte vi sia un provvedimento di una autorità di vigilanza, considerato che nei procedimenti dinanzi a questi organismi il riequilibrio delle posizioni di forza è dato anche dall’attribuzione alle stesse autorità di penetranti poteri di indagine.

4. CONSUMATORI E INVERSIONE CONTRATTUALE DELL’ONERE DELLA PROVA

4.1. Il limite dell’eccessiva difficoltà all’esercizio del diritto
Passando infine al tema dell’inversione o modificazione contrattuale dell’onere della prova nei contratti con i consumatori, bisogna prendere le mosse dal disposto dell’art. 2698 c.c.
Come si è in precedenza ricordato, ai sensi dell’art. 2698 c.c. i patti di inversione o modificazione dell’onere della prova sono nulli quando l’inversione o la modificazione renda eccessivamente difficile l’esercizio del diritto.

Data l’ampiezza della dizione legislativa, non può escludersi che la situazione soggettiva dell’onerato sia idonea a rilevare ai fini della valutazione dell'eccessiva difficoltà.
Non sorprende, pertanto, che si sia sostenuto che il requisito dell’eccessiva difficoltà nel fornire la prova sia in re ipsa quando ad essere onerato dal patto di inversione o modificazione sia un consumatore, considerata la complessità dei procedimenti produttivi, la vastità dell'organizzazione imprenditoriale e tutti gli altri fattori di squilibrio che giocano a favore della parte forte del contratto .

4.2. La vessatorietà della clausola di inversione o modificazione nei contratti standard
La conclusione della nullità dei patti di inversione o modificazione dell’onere della prova direttamente in virtù della norma generale dettata dall’art. 2698 c.c. è però insicura, in quanto affidata ad una opzione interpretativa che, per quanto ragionevole, può non essere condivisa dal giudice chiamato ad applicare la norma.

Né miglior risultato poteva trarsi dalla disciplina dei contratti per adesione di cui agli artt. 1341 e 1342 c.c.
È vero che tali contratti, caratterizzati dal fatto di contenere condizioni generali che il predisponente utilizza in una serie indefinita di occasioni per regolare uniformemente i suoi rapporti, sono particolarmente diffusi nel campo dei contratti con i consumatori .
Ed è altresì vero che attribuire natura vessatoria alle clausole contenenti patti di inversione o modificazione dell’onere della prova sarebbe vantaggioso per consumatori, posto che, ai sensi dell’art. 1341 c.c., in questo tipo di contratti le clausole vessatorie sono efficaci solo se specificamente approvate per iscritto.

Tuttavia, mancando una espressa previsione legislativa, si tende ad escludere che le clausole di inversione o modificazione dell’onere della prova siano vessatorie. La regola fondamentale consolidatasi durante gli ultimi decenni nell'applicazione del 2° comma dell'art. 1341 c.c. è infatti quella secondo cui le ipotesi di vessatorietà contemplate nell'art. 1341 c.c., pur suscettibili di interpretazione estensiva, si considerano tassative, data la natura eccezionale della norma che impone un onere formale di specifica sottoscrizione in deroga al principio generale della libertà delle forme .

In ogni caso, poi, la tutela offerta dagli artt. 1341 e 1342 c.c. si è normalmente dimostrata di scarsa utilità.

Basti in proposito dire che di rado la formalità della specifica approvazione per iscritto raggiunge realmente lo scopo di sollecitare l’aderente, posto di fronte a clausole che appaiono onerose o pericolose, a prendere conoscenza e valutare le condizioni predisposte dall’altro contraente, stimolando in questo modo la sua capacità di reazione. Come l’esperienza insegna, nella quasi totalità dei casi le clausole vessatorie sono sottoscritte meccanicamente, senza nemmeno leggerle, e comunque, davanti all’alternativa tra “prendere o lasciare”, è difficile pensare che la parte debole abbia una effettiva possibilità di negoziare le condizioni contrattuali.

4.3. L’abusività della clausola di inversione o modificazione nei contratti con i consumatori: la previsione generale
Si giunge così agli artt. 1469 bis e segg. c.c., che, come si è già avuto modo di dire, disciplinano i contratti con i consumatori, comminando, ex art. 1469, 1° comma, la sanzione dell’inefficacia alle clausole (cosiddette abusive) che determinino a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, senza possibilità di evitare tale conseguenza semplicemente apponendo una specifica sottoscrizione, come invece avviene nell’ambito dei contratti per adesione di cui agli artt. 1341 e 1342 c.c.
Per quanto riguarda i contratti stipulati tra professionisti e consumatori, non c’è dubbio che i patti sulla prova e di inversione o modificazione dell’onere della prova siano abusivi.
La legge in proposito è molto chiara.

Il 3° comma dell’art. 1469 bis c.c., fornendo un dettagliato elenco di numerose ipotesi di clausole che si presumono abusive, recita al n. 18 del 3° comma: “si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che hanno per oggetto o per effetto di (...) sancire a carico del consumatore (...) limitazioni all’allegazione di prove , inversioni o modificazioni dell’onere della prova” .

Debbono pertanto presumersi vessatorie sia le clausole che vietino al consumatore di dedurre uno o più mezzi (ad es. la prova testimoniale) o riservino l’ammissibilità a solo uno di essi (ad es. una riproduzione meccanica, un contrassegno, una certificazione di un certo tipo, o più genericamente la sola prova scritta), sia le clausole che, pur lasciando integro l’arsenale probatorio messo a disposizione dalla legge in relazione ai fatti che il consumatore ha il dovere di dimostrare, ripartiscano il rischio del mancato raggiungimento della prova in maniera diversa da quella fissata dalla regola legale dettata dall’art. 2697 c.c.

Ovviamente, nonostante la sua inclusione nell’elenco di cui al 3° comma dell’art. 1469 bis c.c., la clausola di limitazione alla deduzione di prove o di inversione o modificazione dell’onere della prova può non essere abusiva.

Difficilmente, però il professionista sarà in grado di provare che la clausola non realizza, in concreto, nessun significativo squilibrio a carico del consumatore o che è stata oggetto di trattativa individuale e che quindi, in base, rispettivamente, agli artt. 1469 bis, 1° comma, e 1469 ter, 4° comma, c.c. non deve essere considerata abusiva.

Difficilmente inoltre ricorrerà l’ipotesi esimente dalla vessatorietà di cui al 3° comma dell’art. 1469 ter c.c., sulla riproduzione di disposizioni di legge. Non è infatti agevole riscontrare, nel nostro ordinamento, ipotesi legislative di limitazione all’allegazione di prove o di inversione o modificazione della regola legale dell’onere della prova a sfavore del consumatore, riscontrandosi semmai ipotesi di segno contrario. Né può ritenersi che la riproduzione di norme semplicemente regolamentari (che offrono maggiori probabilità di racchiudere ipotesi vessatorie nei sensi del n. 18 dell’art. 1469 bis c.c.) possa escludere l’abusività della clausola, dovendosi preferire l’opinione secondo cui l’esimente comprende la riproduzione delle sole disposizioni di legge in senso formale . Diversamente avrebbe scarso significato pratico che il legislatore abbia espressamente previsto, al 2° comma dell’art. 1469 bis c.c. che il professionista possa essere, ai fini dell’applicazione della disciplina sulle clausole abusive, una persona giuridica pubblica: le clausole contenute nei contratti degli enti pubblici di regola riproducono disposizioni legislative di carattere per lo più regolamentare e pertanto, se si vuole rispettare il canone ermeneutico che impone di scegliere tra le varie interpretazioni possibili quella che valorizza maggiormente il dato normativo, si deve concludere che la riproduzione di una disposizione regolamentare non esclude l’abusività della clausola.

4.4. (Segue): ... la casistica
Passando ai profili applicativi, sia in dottrina che in giurisprudenza sono state individuate numerose ipotesi nelle quali opera la presunzione di vessatorietà di cui all’art. 1469 bis c.c.
a) In dottrina, si è in generale avvertito che sarebbe vessatoria la clausola che intendesse impedire la prova testimoniale, ad es. vietando che, tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto o di ogni altra circostanza, il giudice ammetta ex art. 2721, 2° comma, c.c. la prova per testimoni dei contratti anche laddove il valore dell’oggetto eccede le lire cinquemila , o che intendesse imporre forme convenzionali ad probationem .

b) Più specificamente, la dottrina ha affermato, dapprima con riferimento alla lettera q dell’allegato alla direttiva e poi con riferimento all’art. 1469 bis, 3° comma, n. 18, c.c., che in materia bancaria tra le clausole presunte vessatorie rientra il patto probatorio con cui il cliente e l’eventuale fideiussore riconoscono che i libri e le scritture contabili della banca ovvero le registrazioni effettuate dagli sportelli automatici fanno piena prova nei loro confronti e rinunciano così a valersi di altri mezzi probatori mediante i quali contrastare le altrui risultanze . Riguardo a ciò si è scritto che tra le clausole abusive c'è “senz’altro quella, un tempo diffusa nei contratti bancari (in particolare nel contratto di conto corrente), con la quale il cliente riconosce che i libri e le scritture contabili della banca fanno prova piena nei suoi confronti, così precludendosi la possibilità di prova contraria con altro mezzo. La giurisprudenza, esaminando clausole siffatte alla luce dell’art. 2698 c.c., aveva ritenuto in passato che esse non implicassero una inversione indebita dell’onere probatorio, in quanto si limitavano a ricollegare l’efficacia probatoria a determinati documenti ritenuti dalle parti assistiti da una presunzione di attendibilità. Ma questo indirizzo non appare più proponibile per i contratti tra professionista e consumatore alla stregua del diverso disposto dell’art. 1469-bis n. 18 che sanziona la limitazione della deduzione di prova (contraria) in quanto tale” ; che sono da presumere abusive anche quelle clausole “con cui il fideiussore dichiara di accettare, a fini probatori, le risultanze contabili del[l’istituto bancario] creditore” ; che risulta vessatoria alla luce dell'art. 1469 bis, 3° comma, n, 18, pure “la clausola con la quale, nei moduli contrattuali relativi al servizio bancomat, è stabilito che l’addebito in conto delle somme previste viene eseguito dall’azienda di credito in base alle registrazioni effettuate automaticamente dalle apparecchiature cui è collegato lo sportello bancomat presso il quale è stato effettuato il prelievo e documentate dal relativo giornale di fondo, le cui risultanze fanno piena ed esclusiva prova nei confronti dell’utente”

Le opinioni esposte sono state prontamente recepite in giurisprudenza , dove è stata dichiarata la vessatorietà sia della clausola secondo cui “gli estratti dei libri e delle altre scritture contabili della banca fanno piena prova nei confronti del cliente” sia la clausola secondo cui “l’addebito in conto delle somme prelevate viene eseguito dalla banca in base alle registrazioni effettuate automaticamente dallo sportello automatico abilitato presso il quale è stato effettuato il prelievo e documentate dal relativo “giornale di fondo”, le cui risultanze fanno piena ed esclusiva prova nei confronti del correntista, anche nel caso di eventuale rilascio di comunicazione scritta contestuale a ciascun prelievo”. Riguardo alla prima clausola, il tribunale ha osservato che la dichiarazione di “vessatorietà della clausola, censurata anche dall’ABI (v. circ. del 3.2.1995, n. 739, e del 23.2.1996, n. 17) e contraria all’art. 2709 c.c. (secondo cui le scritture contabili dell’impresa fanno piena prova contro l’imprenditore), si giustifica con riferimento all’evidente significativo squilibrio contrattuale che si realizza tra le parti ed ai parametri di cui ai nn. 2, 16 e 18 della lista. Né è condivisibile il rilievo secondo cui si tratterebbe di clausola riproduttiva di norma di legge, cioé dell’art. 50 del d.lgs. n. 385 del 1993 (“la banca d’Italia e le banche possono chiedere il decreto d’ingiunzione previsto dall’art. 633 c.p.c. anche in base all’estratto conto, certificato conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti della banca (...)”: è evidente che altro è la prova scritta con efficacia limitata ai fini della pronuncia di un decreto ingiuntivo, altro è la prova legale costituita nei confronti del consumatore da documenti di provenienza unilaterale della banca” . Riguardo all’altra clausola, il giudice ha richiamato le argomentazioni in precedenza svolte: “la clausola in questione conferisce a determinate scritture contabili della banca (il giornale di fondo degli apparecchi automatici) il valore di prova legale nei confronti del cliente: la [dichiarazione di] vessatorietà [pertanto] si giustifica per le ragioni già dette”

c) Tornando alla dottrina, anche qui dapprima con riferimento alla lettera q dell’allegato alla direttiva e poi con riferimento all’art. 1469 bis, 3° comma, n. 18, c.c., in materia assicurativa si è affermato che devono ritenersi abusivi i patti sull’onere della prova con cui si intenda accollare all’assicurato la dimostrazione di non aver cagionato il sinistro. È stato in proposito scritto che “tra le clausole abusive implicanti una inversione dell’onere della prova, potrebbero ora ricadere tutte quelle, frequenti nei contratti di assicurazione, che addossano all’assicurato, ai fini dell’accertamento del diritto all’indennizzo, l’onere di provare la insussistenza del nesso di causalità tra il sinistro e l’evento contemplato in una clausola di esclusione [, e potrebbero in particolare] ritenersi presuntivamente vessatorie quelle particolari clausole (…) che subordinavano il pagamento dell’indennità alla prova, posta a carico dell’assicurato, che il sinistro non fosse stato determinato da dolo o colpa grave dell’assicurato stesso o delle altre persone indicate in polizza” .

d) La giurisprudenza ha per parte sua già avuto modo di riscontrare la vessatorietà di clausole di inversione dell’onere della prova in materia di trasporto marittimo. Le clausole in questione, contenute in contratti stipulati con i consumatori da una società di navigazione, prevedevano l’esonero di quest’ultima da responsabilità per danni alle persone o alle cose trasportate e per mutamenti di itinerari o di orari a meno che il passeggero non fornisse la prova della causa imputabile al vettore. Posto che gli artt. 408, 409 e 412 c.nav. e gli artt. 1681 e 1693 c.c. sanciscono una presunzione di responsabilità a carico del vettore, salvo che questi non fornisca la prova contraria della mancanza di colpa, il predisponente intendeva in tal modo realizzare una inversione, abusiva nei sensi di cui all’art. 1469 bis, 3° comma, n. 18, c.c., della regola legale di riparto dell'onere della prova. In particolare, dopo aver premesso che “l’ipotesi di danno subito dal passeggero a causa del ritardo o della mancata esecuzione del trasporto è prevista dall’art. 408 c.nav., che sancisce una presunzione di responsabilità a carico del vettore, salvo che questi non fornisca la prova contraria della mancanza di colpa, [che] medesima presunzione di responsabilità è prevista per i danni alle persone ed alle cose nel corso del trasporto rispettivamente dagli artt. 409 e 412 c.nav. e dagli artt. 1681 e 1693 c.c., [e che] ribaltando la suddetta presunzione (iuris tantum), l’art. 17 delle condizioni generali di contratto dedotte in giudizio prevede l’esonero di responsabilità del vettore in una serie di ipotesi di danno alla persona o alle cose nel corso del trasporto, o derivante da mutamenti di itinerari o di orari, salvo che il passeggero non provi che il danno sia derivato da causa imputabile alla società” , il tribunale di Palermo ha concluso: “la suddetta inversione dell’onere della prova è espressamente vietata dall’art. 1469 bis, 3° comma, n. 18, c.c.”.

Si è in proposito commentato che la presunzione di responsabilità a carico del vettore per i danni che si possono verificare durante il trasporto di cui agli artt. 409 e 412 c.nav. costituisce la versione "marittima" della responsabilità ex recepto prevista a carico del vettore terrestre dall'art. 1681 c.c. e che l'inversione dell'onere della prova, posta dalle condizioni generali di contratto a carico del consumatore, “appare platealmente contraria alla previsione di cui al n. 18” dell'art. 1469 bis c.c.

Pure altra dottrina ha condiviso, in sede di commento, la posizione del Tribunale di Palermo ed ha a sua volta ritenuto vessatoria la clausola in esame, salvo poi ipotizzare una drastica nullità alla luce della disciplina generale dei contratti. Quest'ultima dottrina ha infatti osservato che gli artt. 408, 409, 412 cod. nav. “prevedono unanimemente una presunzione di responsabilità a carico del vettore, salvo egli provi che il danno sia derivato da causa a lui non imputabile; in materia di responsabilità del vettore identica disciplina e distribuzione è prevista dalle norme del codice civile, artt. 1681 e 1693”, e che pertanto la piena inversione dell'onere della prova a carico del passeggero, realizzata dalla previsione contrattuale, “integra perfettamente una delle ipotesi tipiche di clausola vessatoria, prevista esplicitamente dall'art. 1469 bis, 3° comma, c.c., al n. 18” . Ma ha altresì soggiunto che “[l'art. 415 cod. nav.] dichiara espressamente inderogabili a favore del vettore le norme di cui agli artt. 409 e 412 in oggetto [e che quindi,] oltre alla sanzione di inefficacia, sicuramente comminabile ex artt. 1469 bis e segg. c.c. ” , la clausola contrattuale sarebbe stata più radicalmente censurabile ex art. 1418 c.c.

This project is being sponsored by the DG SANCO of the European Commission and the National Institute of Consumption of Spain
   
 
aicar.adicae@adicae.net | Spanish Banking and Insurance Consumers Association www.adicae.net Any problem or technical request, contact webmaster@adicae.net
© ADICAE 2005. All rights reserved.